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Sulla naturale regressione verso l’arroganza di certi alternativi da operetta

Flashback.
L’ennesima involuzione di certi personaggi mi ha sconvolto. Eppure dovrei esserci abituato, li ho frequentati molto ai tempi dell’università; a stretto contatto, ritenevo di condividere con essi alcune iniziative su una presunta quanto utopica uguaglianza sociale, frutto in realtà solo della mia dabbenaggine e sprovvedutezza. Il loro habitat, nel quale crescevano e proliferavano spalleggiandosi e riproducendosi, era il quartiere di San Lorenzo, storica roccaforte della resistenza durante la seconda guerra mondiale e per questo, oltre che per una strategica vicinanza alla città universitaria, assurto a quartier generale della “movida” romana (che allora non si chiamava ancora così, Dio punisca chi ha introdotto nelle nostre esistenze anche questa ennesima bruttura fonetica).
Già allora, quando ho capito che non di veri attivisti si trattava, quanto piuttosto di figli di papà che giocavano a fare gli squattrinati – salvo poi rientrare la sera nelle loro benestanti case parioline del papà notaio, avvocato o medico, già col futuro in tasca non appena si fossero laureati – ho cercato di trasformarmi in una goccia d’acqua in quel liquido oleoso e, quindi, di non mischiarmi.
Mi sono ribellato quasi subito al loro passatempo, ai loro “compagno” (ma compagno di cosa? Non siamo Pacciani e Vanni, né tantomeno mi si deve affibbiare un’etichetta che ci riduca a elementi passivi di uno schema più grande, nel quale mi si ritaglia il ruolo di pedina atta ad adoperarsi e compiacere l’oligarchia di turno, sociale, politica, economica o sessuale che sia! Cazzo), per dedicarmi a quelle attività per le quali mi sentivo più affine a loro: calcetto, tresette, vino, rock e altre amenità che non sto qui a menzionare.
Nella mia illusoria e inadeguata visione del mondo, sorretto da un’altrettanto erronea interpretazione della teoria darwiniana (ma quando imparerò a farmi furbo?), ero convinto che quella categoria sociale, così effimera e superficiale, non sarebbe sopravvissuta agli spensierati anni universitari.
Quanto mi sbagliavo! E anche qui, nulla di insolito. Mi domando come si possa passare anni a cercare di capire il mondo e non comprendere di esso mai una mazza…
 
Oggi.
O meglio venerdì sera. Godimento e felicità per un fratello che torna nella nostra vita, moderno figliol prodigo, il quale per festeggiare ci apre la sua casa e l’abbondante meltin pot del quartiere vivace, alternativo e artistoide dove vive: San Lorenzo. Entriamo in uno degli innumerevoli locali che allietano il viavai di una estroversa festa della donna (sulla quale – festa – non spenderò nemmeno una frase, nemmeno un aggettivo… muto e pedalare!). Riempiamo un tavolo all’interno di un ecosistema decisamente chic, musica ambient e luci adeguate, candele che galleggiano su uno strato gelatinoso dentro un barattolo pieno di turaccioli con sovraimpresso il mio cognome (d’accordo, l’ultima immagine non è reale ma parto della mia leonardesca fantasia); se non fosse per l’umidità al 90 per cento, la puzza che qualcuno degli astanti sente (non io, che sembra abbia il medesimo olfatto di un cocainomane) e tutta una serie di mancanze alla sicurezza sui luoghi di lavoro che a me, tartassato da una capa bisbetica pure in qualità di responsabile della salvaguardia dell’incolumità dei colleghi, non sfugge. Ma, soprattutto, ci sono loro: gli alternativi o, come si preferisce definirli ora – dopo la rivoluzione culturale gelminiana – i radical chic. Belli. Eleganti. Sicuri di sé.
Chi può amministrare un posto talmente all’avanguardia da attirare così tanta “bella gente”, come si dice nei luoghi alla moda? Una manica (accezione negativa e romanesca di “gruppetto”, blandonota) di emerite teste di cazzo, obviously. Nella misura addirittura di tre su tre, un bell’en plein. Ma con un paio dei tre gestori che spiccano sul terzo e uno che addirittura si eleva e si libra sugli altri nel suo empireo di arroganza.
Prima prova non appena seduti quando arriva, con barba e capelli ribelli, il ciuffo sudato e anche un po’ ubriaco (Fico! Ma chi è Borroughs, Kerouac? Ci troviamo catapultati improvvisamente nella beat generation?) e, alla richiesta gentile del nostro fratel prodigo di avere da bere, risponde stizzito: “E che te paro ‘ncameriere? Le consumazioni si prendono al bar!” “Beh, stai ritirando i bicchieri da un tavolo, un vigile urbano non sembri”, verrebbe da dirgli. Ma mi trattengo perché poi sei sempre il solito attaccabrighe e bla bla. Nel frattempo ne approfitta per sorridere suadente a tutte le ragazze del tavolo, mentre si porta via i bicchieri con un contegno e un’altezzosità che un cameriere se li sogna!
Accompagno il fratel prodigo al bar dove c’è ancora lui (è ubiquo!) intento a preparare due cocktail. Gli ripete la richiesta e lui: “Mo sto a preparà questi!”. “Ma questo è proprio un coglione!” dico, per fortuna non udito poiché, nel frattempo, senza motivo, si scalda e sbatte sul bancone del bar l’arnese per pestare il ghiaccio. Senza motivo credevo io. In realtà, non appena torna il secondo gestore da chissà dove, un tipo flemmatico e accattivante che sfida umidità e ridicolo con un berretto di lana molto trendy in testa, urla: “Ecco a voi il barman!”, gli fa un applauso e si catapulta dall’altra parte del bancone, tra una biondona alta e radical chicchissima (bisogna ammettere che l’arrogantone aveva i suoi bei motivi per incazzarsi con l’amico svanito nel nulla, probabilmente a fare il figo con qualcuna, come avrebbe voluto fare lui) e la sua amica, baciandole e abbracciandole entrambe, nonché stringendole a sé e al suo ciuffo sudato. Ovviamente – banalità – senza preparare i cocktail che fratel prodigo gli aveva chiesto.
Quello che ha preso il suo posto ha cominciato a preparare invece quelli delle due patate di cui sopra (forse se le stavano litigando! La lotta tra fighi alternativi secondo me deve assomigliare a quella dei leoni nella savana…), con una flemma e un distacco che gli ho subito invidiato. Caricata nella mia voce una dose magnum di gentilezza, ho rinnovato io la richiesta. Quello si è fermato, mi ha guardato per un attimo come si guarda una cacca di cane per la strada e mi ha risposto: “Sì”. Naturalmente non li ha preparati. Dopo altri cinque-dieci minuti di attesa fratel prodigo ci ha riprovato e, ragazzi, stavolta ce l’abbiamo fatta! Non senza che fosse stato disturbato nella delicata opera dal terzo gestore, quello che indossava la maglietta con la cravatta disegnata sopra. Ma quanto state avanti! E quanto sono inadeguato io, rispetto a voi?
Mentre lo psicopatico col ciuffo sudato inseguiva la bionda come un cane la lepre, ne ho approfittato per andare in bagno. Un tizio irrompe nel bel mezzo delle mie cosine, richiude la porta ma poi, quando esco, mi fa: “T’ho rotto i cojoni prima!” Solo che l’intonazione sembrava più: “Coso, ma lo sai che stavi al cesso quando ci dovevo andare io?” Annuisco tra me e me e faccio una risata rassegnata e conscia mentre giro lo sguardo e lo vedo seduto al tavolo, intento a marcare stretto una fighetta radical-jazz-chic.

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